L’America, il sesso, l’alcol, la morte e la scrittura secondo Robert Ward, l’autore di Io sono Red Baker, uno dei più importanti fra i contemporanei (anche se non l’avete mai sentito nominare). Intro di Ray Banhoff, foto di Giorgio Serinelli

Mr. Robert Ward
18 Apr 2014

Quest’inverno è uscito in Italia Io sono Red Baker (Barney Edizioni), un romanzo del 1985 che in America ha consacrato il suo autore, Robert Ward, come scrittore di successo. Ne escono tanti di romanzi, forse troppi e se ne parla pure troppo. Per Red Baker ci sentiamo di fare un’eccezione. Anzitutto perché parla di qualcosa che noi stiamo vivendo oggi in Italia: gli effetti della crisi economica su una piccola comunità. Ma attenti! Qui non si tratta di un pippone di autocommiserazione sulla crisi. La vita tranquilla di un gruppo di operai di Baltimora un giorno subisce un trauma radicale: i dipendenti vengono tutti licenziati. Gente che per tutta la vita ha fatto quel mestiere si ritrova a quarant’anni senza nulla. E allora chi si attacca alla bottiglia, chi va in depressione, chi sfiora la morte, chi ricomincia a farsi di anfetamine e manda all’aria un matrimonio o finisce a lavorare per due sudici spiccioli in un parcheggio. Vi ricorda forse le nostre cronache? Quindi questo è un libro che oggi, nel nostro contesto, ha più che mai significato, prima di tutto perché sul finale getta un po’ di speranza sul futuro e ci fa sentire normali, collocandoci nel tempo e nella Storia, poi perché è scritto bene, tra picchi di depressione e dolore e squarci di verità. Niente Piperno, roba sincera. Altro capitolo merita il suo autore, questo signor Ward che abbiamo incontrato durante il suo tour promozionale in Italia, quando girava di libreria in libreria con Nicola Manuppelli (il traduttore e responsabile della collana I Fuorilegge, di Barney edizioni, di cui Red Baker fa parte) e con il calice sempre colmo in mano, ruggendo nel suo slang americano, alticcio e ironico. Ward è uno spilungone allegro, settantunenne, scavato dal tempo. Ha un passato come giornalista, hippie, attore, sceneggiatore di Miami Vice e il suo amico Raymond Carver ha speso grandi parole su di lui. Lui è un tornado, apre bocca e ti dice: «Red Baker l’ho mandato a 31 editori, lo hanno rifiutato tutti. Porca puttana ero distrutto». Poi è stata la ex ragazza di Jack Kerouac a pubblicarglielo e quel libro, anzi quella storia, ha fatto la sua fortuna. La gente gli mandava lettere in cui diceva Io sono Red Baker e da qui il titolo italiano. È importante come in tanti sentano il bisogno di identificarcisi con questo ultimo degli ultimi, quest’uomo capace di tradire mogli e amici e scavare il fondo per poi risalire. Red ci dà un po’ una possibilità, a tutti noi che forse non ne abbiamo. Ward se ne fotte e giganteggia ogni volta che apre bocca, in una delle rare occasioni in cui non sta broccolando una tipa: «Gli scrittori americani hanno il complesso di inferiorità con gli europei, si sentono meno colti, allora scrivono tutto edulcorato, tutto gne gne, ci tengono a far bella figura. I don’t give a shit about it. Anche Carver ne soffriva, ma lui era un amico vero e poi era un gigante, ma questo non lo scrivere eh». L’intervista in questione è stata affidata a Marta Ciccolari Micaldi, autrice del blog La McMusa, esperta di letteratura americana e conoscitrice dell’opera di questi fuorilegge. Buona lettura. (Ray Banhoff) OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Red Baker introduce il suo autore Robert Ward con queste parole: «Ehi, questo tipo, Robert Ward, potrebbe piacerti. Per essere uno scrittore non è male. Potrei addirittura cercare di leggere uno dei suoi libri. Voglio dire, uno dei suoi altri libri. Ha fatto un discreto lavoro scrivendo della mia vita, anche se non credo di essere un così cattivo ragazzo come lui mi ha fatto sembrare. Ha detto che bevo troppo e che monto su un casino quando in realtà dovrei essere in giro con la mia famiglia, ma che cazzo… E che razza di tipo è Ward? Be’, gli piace bere anche a lui, gli piacciono le donne e siccome è stato sposato tre volte non credo proprio che sia un angelo. Mi ha detto che da giovane è stato un hippie, che ha vissuto a San Francisco negli anni Sessanta. Probabilmente non mi sarebbe piaciuto a quei tempi perché a nessuno dei ragazzi del quartiere piacevano gli hippie, anche se qualche anno più tardi finimmo per prendere le stesse droghe e fumare erba anche noi. Quindi forse abbiamo più cose in comune di quanto non voglia credere. [pullquote]Non è forse questo il vero scopo della letteratura? Scrivere degli infiniti modi in cui le persone si tradiscono e ciononostante trovano in qualche modo amore e riconciliazione?[/pullquote] Sia conoscendoti, sia parlando con Nicola Manupelli (traduttore e responsabile della collana I Fuorilegge) più volte è venuta fuori la definizione di te come un Bruce Springsteen della letteratura. Correndo il rischio che a te Springsteen facesse schifo… Cosa ne pensi di lui? Be’, paragonarmi a Springsteen è molto lusinghiero. È un uomo di talento, serio, con il cuore al posto giusto. Scriviamo entrambi di persone che vivono vite dure e in bilico. Ma non sono stato per niente influenzato da lui. Sono stato influenzato anche e più di tutto da mia nonna Grace Ward, che era un’attivista per i diritti civili e mi ha sempre detto di avere compassione e di cercare di aiutare le persone povere. Non mi considero un performer né un intrattenitore e non ho mai avuto il desiderio di diventare ricco e famoso. Se avessi voluto diventarlo sarei rimasto nella rock band in cui suonavo e ci avrei provato in quel modo. Volevo solo scrivere i libri di cui ero ossessionato al momento. Four Kinds of Rain lo considero il mio miglior libro ed è la storia oscura di uno strizzacervelli che tradisce i suoi pazienti, è il libro su come la nostra generazione si è svenduta per i soldi…  Ovvero la cosa contro cui ci opponevamo all’inizio, quando abbiamo cominciato. Finché si parla di rock, ho amato i Rolling Stones, Otis, James Brown, The Beatles, Smokey Robinson e i Kinks; ma sono sempre stato scettico sul rock perché i cantanti volevano essere insieme rivoluzionari e miliardari. Springsteen è uguale, l’ha anche ammesso in un pezzo che ho letto recentemente: ha detto che si è sentito un ipocrita e che ha persino pensato al suicidio. Alla fine ha deciso che andava bene così perché era un artista. Vorrei riuscire a cavarmela anch’io così facilmente quando ho un dilemma. Quale è stato il momento più bello della tua vita? Io e mia moglie che abbiamo il nostro primo figlio Robbie dopo aver provato per quattro anni. Questo sta al numero uno. Passammo un brutto periodo, provando e provando a lungo. E lei era molto depressa. Stavo lavorando su Miami Vice quando lei rimase incinta ma perdemmo il bambino… davvero, non potevamo essere più giù. Poi, un anno dopo, andammo da un medico della fertilità a Long Beach e lui aveva un atteggiamento così fiducioso… praticamente ci disse che noi stavamo per avere un figlio. La fede può avere qualcosa a che fare con una cosa del genere? Sembrò proprio di sì. Perché, per quanto potessimo essere giù quando uscimmo dal suo studio, noi credevamo che sarebbe successo e nove mesi dopo… successe.  La seconda cosa più importante è stato scrivere Red Baker dopo averci combattuto per cinque anni. Ci avevo già praticamente rinunciato quando mi vennero in mente le prime frasi, così, dal niente, come se fossero sempre state lì. Di nuovo, è stato un miracolo ed ero così giù, così depresso, avevo scritto il libro sbagliato per cinque anni. Seicento pagine inutili. Poi, all’improvviso, arrivò il libro giusto, come se fosse stato sempre lì ad aspettare che io lo notassi. Ho scritto quel romanzo, Red Baker (il libro sbagliato si chiamava Baltimora) in otto mesi. Come aver avuto mio figlio anni più tardi, mi è sembrato un miracolo. [pullquote]Sono stato ispirato da Grace Ward, mia nonna, attivista per i diritti civili che mi ha sempre detto di avere compassione e di aiutare le persone povere[/pullquote] Quando ci siamo incontrati abbiamo parlato del tradimento. Di quanto sia da disperati tradire gli amici, di quanto il lettore – che per tutto il libro sta dalla parte di Red Baker – nel momento in cui tradisce il migliore amico, mmm, un po’ gli girano, un po’ da Red Baker si allontana. Tu hai mai tradito? Te lo ricordi il perché? Certo, chi non l’ha fatto? Non è forse questo il vero scopo della letteratura? Scrivere degli infiniti modi in cui le persone si tradiscono e ciononostante trovano in qualche modo amore e riconciliazione? Se sei sposato e sei infedele nei confronti di tua moglie, l’hai tradita. Se hai promesso a qualcuno che gli avresti sempre protetto le spalle e poi invece alle spalle lo pugnali per trarne in qualche modo vantaggio, hai tradito quella persona. Credo fermamente che la maggior parte delle persone vogliano essere buone. Ma nessuno è perfetto. E per quanto riguarda il mio peggior tradimento… be’, non ho mai fatto niente di così così cattivo come uccidere qualcuno, ma tra i miei peccati c’è senz’altro quello del tradimento. In Red Baker la morte aleggia sempre e sfiora il protagonista. Tu che rapporto hai con la morte? Come ti ho detto, ho scritto quel libro come se fossi stato in un sogno. Ci arrivai dopo aver faticato per quasi sei anni su un altro libro, che era in gran parte il tentativo di scrivere un consapevole, Grande romanzo. Ma quello non è il tipo di scrittore che sono io. Io devo essere in quest’altro stato per dare il mio meglio. È quasi come uno stato sognante.. dove non penso a niente ma permetto all’opera di venire fuori. Suona stupido ma dopo tutti questi anni so che è così. Stavo lavorando su un altro libro da quattro anni e mezzo quando improvvisamente Four Kinds of Rain sbucò fuori dal mio subconscio. E poi si scrisse da solo. Cos’ha a che fare questo con la morte? Be’, quando arrivai al punto di abbandonare tutte le speranze per Red Baker e Four Kinds of Rain stavo pensando alla morte e di morire. Sentii che la mia carriera era davvero finita prima di quei due libri. Non è che stessi pensando proprio di uccidermi, ma mi sentivo morto interiormente… bevvi tanto in entrambe le occasioni e mi deprimevo. Cosa posso fare di più? Cosa diavolo mi è rimasto? Come artista sono finito. Questo fu quando – entrambe le volte – improvvisamente rinacqui e uscirono i due libri. E seppi all’istante che erano davvero buoni.. ma ero in grado di sostenerli? Finirli? Provai terrore per tutto il tempo che scrissi Red Baker e Four Kinds of Rain. Sapevo che erano belli, veramente belli. Ma sarei riuscito a terminarli? Questo stato di grazia – bilanciata dal terrore – in cui mi trovavo sarebbe durato? Non riuscivo a dormire. Non riuscivo a parlare con le persone. Persi il buon umore… tutto questo perché ero spaventato a morte, avevo paura che i sentimenti che stavo provando – sentimenti che riguardavano il mio essere sul serio un artista, il mio scrivere per davvero un grande libro – fossero soltanto transitori, e che se fosse stato così e non fossi riuscito a terminarli.. sarei morto. E così la morte arrivò dal mio stesso terrore e da una specie di stato di estasi. Fu entusiasmante e meraviglioso e terrificante tutto allo stesso tempo, e penso di essere riuscito a inserire questi sentimenti nei libri. Amore, sregolatezza e paura della morte. OLYMPUS DIGITAL CAMERA [pullquote]Mio padre soffriva di disturbi ossessivo-compulsivi e si lavava per sei ore al giorno, rideva di me e diceva: mister Hemingway, cosa scriverai oggi?[/pullquote] Sesso e alcol, due delle cose più piacevoli di questo mondo, possono rivelare la loro faccia nascosta, più distruttiva e sinistra, in molti modi. Hai mai usato sesso e alcol per distruggere invece che per creare o trovare conforto? Qual è il tuo più sincero rapporto con queste cose? Il sesso è la forza primaria della vita. La creazione è sesso, l’amore all’inizio è basato sul sesso. L’alcol aiuta a ridere, avvicina le persone. A meno che uno non diventi un pazzo ubriacone. Libera il subconscio e ti permette di stare in uno stato sognante perfetto per scrivere. Fino a un certo punto. Poi spegne la coscienza. Non ho mai distrutto nessuno, nemmeno me stesso. Io non sono Red Baker. Lui è un personaggio basato su alcune persone che ho incontrato quando andavo in giro con i lavoratori d’acciaio. Si usciva per locali, si andavano a trovare le loro ragazze. Facevano parte della vecchia cultura maschilista… Probabilmente erano molto simili ai tizi di Goodfellas. Se l’America fosse l’aldilà, cosa sarebbe il Paradiso e cosa l’Inferno? New York e Los Angeles sarebbero il Paradiso e l’Ohio l’Inferno. Ho vissuto in Ohio per due anni e l’ho odiato. Il sud è razzista e povero ma la gente è per lo più meravigliosa e calorosa. La mia esperienza in Arkansas, il secondo stato più povero degli Stati Uniti dopo il Mississippi, è stata fantastica. La gente era calorosa e leale, e divertente. Gente di grande musica. L’Ohio era il Midwest, spento e noioso oltre ogni aspettativa. Le migliori persone che conobbi lì erano tutte ribelli, infatti, e sono ancora amico con tutte loro. Ma dovevano combattere una specie di morta e compiaciuta cultura di Rotariani e membri del Kiwanis Klub. Nel sud puoi avere dei veri nemici, zoticoni conservatori che ti ucciderebbero perché sei un hippie e vai in giro con persone di colore, però lo sai… Ho visto gente cambiare laggiù. Ho invitato persone di colore a feste con gente che sapevo essere razzista e alla fine hanno stretto amicizia… ma il Midwest è così pieno di sé e formale e monotono. Era come cercare di combattere contro un sacco, il tuo braccio semplicemente scompare dentro tutta quella fiacca rispettabilità. C’erano brave persone là ma combattevano una battaglia veramente tosta. [pullquote]Tutti i miei libri parlano della stessa cosa: di un uomo che cerca di essere buono e fare bene nonostante i suoi nemici e la sua stessa natura oscura[/pullquote] Baltimora, la tua città, è l’altra protagonista del romanzo. Scrivi per essere sentito anche da lei? Amo e odio Baltimora, e in ogni caso ne sono ossessionato. Ho trascorso un’infanzia meravigliosa in un quartiere di case a schiera chiamato Northwood. Tutti i miei migliori amici vivevano nel raggio di tre isolati. Avevamo un campo da baseball dietro l’angolo e il Morgan State College, una nota università nera, solo qualche isolato più in là. Potevamo usare il loro stadio per giocare a football. Era divertentissimo. Scorrazzavo in giro con i miei amici tutto il giorno e tutta la notte e vivevamo un sacco di piccole avventure. Era perfetto. Ma quando iniziai a crescere cominciai a vedere tutte le cose negative di quel posto, soprattutto nella mia famiglia. I miei genitori non erano più felici. Mio padre aveva una relazione sul lavoro, mia madre lo scoprì e questo la distrusse. Era instabile e, in ogni caso, lunatica. Una volta, quando ero piccolo, non volevo andare a casa perché stavo giocando ai cowboy con i miei amici… mi prese e mi trascinò via urlando lungo la strada. Credeva che non fosse divertente. Ma mi slogò il braccio. C’erano anche altre cose: mio padre soffriva di disturbi ossessivo-compulsivi e si lavava per sei ore al giorno. Era terribile, pensava di essere stato maledetto da Dio per essere diventato ateo. Inoltre, nessuno dei due era andato al college e non volevano che ci andassi nemmeno io. Si aspettavano che trovassi un lavoro e mi sistemassi vicino a loro. Non provavano alcuna simpatia per i miei sogni di diventare uno scrittore. Il mio vecchio rideva di me, diceva: «Mister Hemingway. Oh, cosa scriverà Mister Hemingway oggi? Vedrai, caro mio. Vedrai come il mondo ti accoglierà. Esattamente come ha fatto con me». Si riferiva alla sua carriera come pittore. Aveva molto talento e aveva ricevuto una borsa di studio dal Maryland Institute of Art ma il suo sogno di diventare un pittore fu spazzato via dalla mia comparsa. Mi odiò per questo. Io e lui ci scontravamo pesantemente. Nel frattempo io stavo leggendo Baldwin e Mailer e qualsiasi altro scrittore di New York su cui riuscivo a mettere le mani e sapevo che me ne sarei dovuto andar via di là. Poi arrivò a bussare alla porta l’eroina e la maggior parte dei miei amici diventarono dipendenti. Fu terribile… fui tentato io stesso, sembrava così cool. Mi prendevano in giro perché non mi facevo. E così persi tutti i miei sostegni… i miei amici, il mio vecchio. Fortunatamente andai in una piccola scuola di lì, il Towson College, e alcuni professori notarono il mio potenziale. Questo fu quello che mi salvò. Dunque Baltimora è la mia città, la amo e la odio. Qualcuno lì conosce il mio lavoro, ma non è una città per i libri. È una città di lavoratori, a cui piacciono i film, il baseball, il football.. i libri non molto. OLYMPUS DIGITAL CAMERA [pullquote]Persi il mio vecchio, i miei amici per l’eroina. Ma in una piccola scuola alcuni professori notarono il mio potenziale. Questo fu quello che mi salvò[/pullquote] Quali sono le città americane che ami di più e perché? Oltre a Baltimora… New York. Che era l’esatto opposto di Baltimora. “Vuoi fare lo scrittore?” “Cool, ecco qua.. chiama questo tizio e lui ti aiuterà a iniziare a scrivere per qualche rivista.” “Vuoi scrivere un film?” “Cool! Una mia amica è un’agente e suo marito è un produttore e adoreranno la tua sceneggiatura.” Sì, ogni tanto erano tutte stronzate e non funzionava, ma spesso invece sì. Los Angeles. Per le stesse ragioni di New York. Qui tutto può succedere. San Francisco. Per la sua bellezza e la sua natura bohèmienne nonostante la maggior parte di quest’ultima sia una cosa che riguarda il passato. Ma nonostante questo io la amo ancora. Se Joyce Johnson, l’ex di Jack Kerouac, ti avesse proposto sì di pubblicare il tuo libro ma ti avesse anche detto che a Jack il libro non sarebbe piaciuto per niente, tu come ti saresti sentito? Come e cosa avresti scritto alla luce di quel commento negativo? Mi sembra impossibile poter rispondere a questa domanda. Joyce non me l’avrebbe mai detto. Se mai avesse pensato una cosa del genere se la sarebbe tenuta per sé. L’ho sentito da gente che pensavo avesse apprezzato il mio libro e poi invece ho scoperto il contrario. Mi ha fatto male. Ma ho anche realizzato che erano gelosi. Gli scrittori possono essere una categoria molto maligna e competitiva. Quando ero piccolo pensavo che gli scrittori fossero tutti in qualche modo amici.. ma molti di loro sono come pavoni che si atteggiano per le loro cose.. e possono essere dei gran bastardi. Ho imparato a non avvicinarmi mai troppo a nessuno di loro. Per quanto riguarda l’effetto della malignità autoriale, alcune volte fa male ma se ti lasci fermare da quello allora non dovresti essere uno scrittore. Le avversità sono sempre e comunque dietro l’angolo ma tu continui a fare il soldato e andare avanti. Impari a dire “Fottetevi” ma lo dici a te stesso. Non offri a loro neanche più un proiettile per ferirti. Cosa vorresti lasciare di te ai posteri? Per cosa vorresti essere ricordato? Voglio essere ricordato come uno che ha scritto dei grandi libri. Tra questi, direi che Shedding Skin è la tipica prima opera ed è l’unico romanzo serio che sia mai uscito dall’esperienza hippie. The King of Cards è una specie di suo sequel ed è un libro incantevole pieno d’amore per i miei amici degli anni Sessanta. Il migliore di tutti, però, è Red Baker, che non è soltanto una storia su un lavoratore d’acciaio ma anche sulla sua famiglia e sull’intero vicinato. Sotto tutto quanto c’è una canzone d’amore per Baltimora. Un’ultima cosa: nonostante io abbia frequentato diversi generi tutti i miei libri parlano della stessa cosa: di un uomo che cerca di essere buono e fare bene nonostante i suoi nemici e la sua stessa natura oscura. E della ricerca dell’amore e dell’amicizia e di un senso di comunità con la gente che sia significativo, un senso che spesso deraglia a causa del desiderio di fama, gloria, e il bisogno e la smania di soldi e potere.    

Marta Ciccolari Micaldi

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